Sono passati ormai più di dieci giorni da quando il diffondersi del contagio da Coronavirus ha costretto il presidente del Consiglio e il governo a ridurre drasticamente le nostre libertà, modificare il ritmo del lavoro, dello studio, e dettare regole nuove per la socialità. Come sta reagendo la gente comune a tutto questo, nel tempo che resta dopo gli impegni di lavoro o dopo lo studio a distanza? Ci sono quelli che osservano scrupolosamente le disposizioni, altri che cercano di esorcizzare la paura, approfittando in tutti i modi di sfuggire a quella che può sembrare quasi una ghigliottina: si partecipa al rito del balcone che ci consente ancora l’incontro e la condivisione, si ricorre al cane e alle sue necessità, pretesto lecito per un breve giro attorno al palazzo, si annega in un overdose di social, si sperimentano le ricette della nonna, si dà libero sfogo al Modugno che è in noi. Sicuramente la maggioranza si rende conto che è in gioco la salute, bene supremo, e accetta il sacrificio di non uscire, ma si vorrebbe vincere la guerra contro il Covid – 19 senza rimetterci troppo. In quest’ottica allora la casa sembra diventare una prigione, dalla quale appena possibile fuggire, anche a costo di pesanti ripercussioni.
Come si esce da questo dilemma, che alla fine ci riporta alla lotta tra bene comune e bene personale? Cambiando ottica, occorre pensare alla nostra casa come l’ultimo baluardo per difenderci dal nemico che avanza, rifugiandoci nel castello. Nel Medioevo questo manufatto ebbe il compito di difendere le popolazioni dalle invasioni che si verificarono in Europa tra il Nono e l’Undicesimo secolo ad opera di Saraceni, Ungari e Normanni. All’interno di queste imponenti costruzioni persone di diverso ceto sociale, (nobili, feudatari, servi) riuscivano ad essere autonomi per il tempo necessario a respingere all’assedio delle truppe nemiche. Oggi non ci sono carri e cavalieri, il nemico è invisibile, ma per questo ancora più insidioso e pericoloso; non si sposta con carri e cavalieri, la minaccia riguarda non una singola regione, o una nazione, ma in brevissimo tempo, il mondo intero, la nostra civiltà.
Occorre allora una conversione intellettuale: il nemico da battere non è dentro casa, dove sperimentiamo la difficoltà di trascorrere il tempo in attesa che torni la cosiddetta normalità. La salvezza non è fuori, ma dentro le mura, che non sentiamo ancora accoglienti, perché siamo attaccati alla nostra libertà e fatichiamo a lasciare le nostre certezze.
La casa come castello e non prigione, come luogo da amare perché vi trovo la salvezza, dove posso ristorarmi, dove trovare coraggio di fronte all’incalzare del nemico, dove curare le ferite dopo l’assalto dei barbari, dove alimentare la speranza in un mondo che sopravvivrà a questa malefica invasione e nel quale voglio ci sia posto anche per me. Ho detto castello, ma forse sarebbe meglio dire famiglia.